Per il capannone enorme si aggira, passo pesante e spegne un interruttore. Cammina fra le chiazze di benzina arcobalenanti e spegne un altro interruttore. Le luci si spengono sugli attrezzi che storpiano di mirabolanti, increspate forme di ferro i disordinati antri dell’incredibile officina. Altro interruttore spengo e il ridondante di metallo e le macchine vecchie e più nuove si assonnano nell’ombra, portata da quelle sue dita grosse, turgide, callose che sgrillettano gli interruttori in plastica: altro CLICK, altro buio.
“Quindi, se tu hai il cazzo piccolo, cioè, non è che dalle mie parti puoi esimerti, dalle mie parti lo devi dire subito. Perché se non lo dici subito, poi la gente lo capisce che ce l’hai piccolo dall’atteggiamento, ed è peggio, tutto qui.”
Le parole che sente sono lontane, viaggiano verso il buio, verso le sue orecchie. Fesatrici, saldatrici, pompe, non sorbone, quelle minuscole per infilarsi nei fori ficheschi delle piccole auto femminili abbondano in una profusione, quasi materna, di meccaniche gelide e arrugginite. Altro interruttore, CLICK, buio. Morbosissimi cavi esplodono oltre i cofani, scappano come serpenti lungo il cemento colorato dalle chiazze di benzina.
“E io lo dico per te, cioè, Suvìl, tu hai settant’anni, io ne ho ventidue, ma se devo dirtela tutta, non credo che cambino le cose. Sì, a te non tira, perché sei vecchio. Ma secondo me anche fra di voi, cazzi mosci, è importante la dimensione. Ma più per una questione psicologica eh. Però, sì, io lo direi subito. Si vede che sei uno insicuro, che sei uno perplesso. Cazzo piccolo dentro proprio. Io ho fatto lo psicopedagogico. Lo so.”
Suvìl affronta l’intera officina fin sotto il piccolo ufficietto in compensato del capo. Zumn sta lì, gambe penzoloni, sul tavolo coi taglierini e le squadre e i documenti delle macchine sotto al culo. Ha un completo nero.
“Fammi capire. Tu sei un pischello di ventidue anni e pensi di potermi insegnare qualcosa?” Suvìl prende le chiavi e il portafoglio dal tavolo. Le ha lasciate proprio accanto dove sta Zumn che lì gli sorride.
“Pensi di potermi insegnare qualcosa tu, che a settant’anni fai ancora il meccanico come me?”
“Tu ti sei fatto la doccia con la pompa delle macchine e l’acqua che usiamo per ficcarla nei-
“Almeno non pago la bolletta a casa, cazzo vuoi!” Zumn si scolla dal tavolo e prende la sua roba ficcandola nelle tasche del completo con noncuranza, ridendo. Il gesto è preciso, si tocca la collanina.
“La vedi questa? Io questa collana d’oro me la sono comprata scroccando docce qui. Qui l’acqua è buona per lavarsi e io sono un tipo che non ha bisogno di nulla, se non di sé stesso.” I due prendono a camminare fuori dall’officina.
“Le comodità lascale agli studentelli universitari che girano con il cappottino da zecche in via Ridana. Io stasera vado a pompare le casse e fare roba seria.” L’enorme saracinesca viene abbassata, Zumn sta premendo il pulsante: l’ombra piano si fa innocentemente totale su ogni oggetto.
“Quando si chiude una porta, è meglio avere le chiavi, sai? Se sei fuori dal giro, perché sei nato nella melma, è meglio farsi furbi da soli senza aspettare nessuno. Il tuo capo, manco lo ha notato che gli rubo l’acqua.” Dice camminando nello spiazzo verso il cancello. Suvìl lo tira.
“Sarà, caro il mio Zumn. Tu me la meni da quanto sei qui, ogni sera è la stessa storia. Io sono fico, sono bello, ho il cazzo grosso e quant’altro. Però intanto sono tre anni che sei qui dentro con me e, cazzo grosso o no, mi sa che ci rimani una cinquantina buona come mi è capitato. Quindi, se io fossi in te, non mi cagherei troppo il cazzo, poi fai tu. Comunque è da tre ore che la mia vita è dedicata all’unica priorità che ora davvero mi interessa. Ho uno stronzo in corpo che devo espellere e voglio correre a casa il prima possibile.”
“Dai, fammi compagnia finché non mi vengono a prendere. Che palle!”
“Col cazzo proprio. Fuggo. Di tutti e due, l’unico che ha l’auto, è quello che viene a prendere te, che è il nipote di questa bella aziendina in cui lavori. Sono sicuro che anche a lui parlerai di quanto è grosso il tuo cazzo e piccolo il suo.” Zumn rimane a fissarlo sotto il chiaro di luna, la zona industriale non osa rumoreggiare neanche. Gli unici rumori stanno in quella bocca vecchia di Suvìl, neanche i grandi grattaceli in lontananza fiatano.
“Io ora devo attraversare l’intera città per arrivare alla porta blindata del mio condominio, dall’altra parte della periferia, io che riesco a cagare solo a casa mia, scusa la rima. Come il mio bagno non c’è niente, nessuna discoteca, nessuna stanza di tipa con la gonnella corta, nessun bordello in centro, niente. E, con l’andare dell’età, te ne renderai conto anche tu, alla fine, puoi avercelo grosso finché ti pare, ma caghi come me, espellendo la stessa roba che espello io. Ecco, il giorno in cui cagherai lavanda, quel giorno chiamami, forse allora potrai tirartela. Bella, vecchio, ce la si sente.” Suvìl e Zumn si danno un bacio socialista sulle guance butterate per salutarsi.
“Caga bene vecchio, caga anche per me.”
“Poco ma sicuro.” Gli dice allontanandosi Suvìl, neanche lo guarda, lo stronzo in quel suo culo anziano sta pulsando con grande vigore. La camminata non aiuta, il suo culo urla, chiede un supporto, che sia emotivo, fisico, muscolare, mentre passo dopo passo Suvìl passa dalla strada dell’officina a quella del viale dove sta l’ingresso della metropolitana infernale. Sa bene il suo culo che non può non reggere, Suvìl sa bene che il percorso è lungo, la metropolitana sa bene che un altro vecchio l’affronta e non avrà altro da dargli se non uno sferragliare sbrindellato di binari e umani che non funzionano, non comunicano, non collaborano e però continuano a essere attivi e rumorosi in quello sputarsi di tubi neri e luci bianche: tutto un buco a penetrarsi?
Suvìl inserisce il biglietto, passa il trespolo girevole, affronta l’atrio, taglia giù per le scale. Piazza delle Metallurgie dei Signori, linea viola: saranno otto fermate con il culo stretto. Suvìl sta sulla banchina. Cinque minuti al grande stronzo di latta che scorre per i tubi imbrattati di schifo. Cinquant’anni prima, quella metro non era così. Cinquant’anni prima non c’era neanche un graffito, neanche una scritta era dilagata sulle pareti della fermata. I mattoni bianchi erano bianchi, non c’era alcuna firma a farsi scarabocchio su di essi. Suvìl suda un po’, la sensazione di voler sedersi sulla tazza gli corre su per la schiena, da quel buchetto che ha là in fondo, fra le chiappe, su per il collo, su per la pelata. Il freddo primaverile lo punge. Il DLIN DLON dell’annuncio della metro.
Suvìl vede il tubo grigio srotolarsi nella cavità della fermata. La banchina sospira in una leggera folata di fronte al biancore imbiancante delle luci. Suvìl entra. Sedersi è un compito delicato quando le chiappe hanno in serbo cose grosse. Vuole il suo bagno, la sua doccia, desidera levarsi dalla carne il sapore di lavoro e olio motore e quel ragazzetto magro, anche lui, gli è rimasto appiccicato inutilmente addosso, che se ne fa? Lui e le sue sopracciglia folte, la sua faccia da tossico i denti bianchi, con i canini sporgenti. Lui e i suoi giubbetti di pelle. Lui e i suoi accendini color oro che cambia sempre, sempre comprati dallo stesso rivenditore, l’orecchino arcuato color blu, le battute idiote, i discorsi idioti, le chiavi viola. Già, ha delle chiavi viola per cui lo prende sempre per il culo, cosa se ne fa di un colore del genere? Perché ha bisogno di avere delle chiavi viola. Vuole fare l’artista con lo stile, esuberante nella classe e finisce solo per essere pacchiano. Com’è pacchiano e marchiano tutto quel mondo che gli è finito addosso, rovesciandosi su di lui mentre invecchiava. C’è da scendere, Suvìl affronta le porte. La fermata è ancora piena periferia, deve camminare su per i corridoi che lo portano alla linea blu, taglia per le scale, cammina per il sottopassaggio, alterna pubblicità a muri tatuati in ogni modo: le scritte riescono ad essere incolori anche se dotate di ogni sfumatura possibile. Affrontando gli ultimi scalini, sente gli schiamazzi.
Suvìl c’è abituato. Mentre aspetta la metro di Kosorozia Est non si stupisce dei colpi che si tirano quei cinque ragazzi laccati dalla testa ai piedi. Due ragazze piangono sedute sulla panchina, uno guarda, altre due stanno in disparte, mentre il gruppetto si strattona e si ritira, si ferma e si ingrossa. Volano calci, pugni, volano schiaffi, chissà che è successo, chissà a chi gliene può fregare davvero, a lui no di certo. Si stringe nel cappotto, sa bene che se uno si avvicina prima lo fulmina con lo sguardo scavato e con quella testa pelata e lucida gli farà passare la voglia di far quei pochi passi verso di lui, necessari per diventare pericoloso, no! Avrà l’età pensionabile che gli morde il culo, ma è pur sempre un meccanico, il fatto di essere saldo sulle gambe lo si riconosce a qualsiasi età. I tre riprendono a menarsi, mentre i minuti sullo schermo diminuiscono. Suvìl sa che è l’inizio della ressa. Quello è il gruppetto che va verso l’agglomerato di discoteche di periferia, lo si riconosce dai vestiti costosi che questi sono poveri e ignoranti come delle capre. E infatti i vestiti non coprono quella giovanile voglia di darsele, unica cosa che Suvìl riconosce di positivo in loro. A darsele ci si sveglia sempre un po’.
Il gruppetto di Kosorozia Est è il primo, quello che preannuncia la metropolitana della linea blu. Quella che arriva ora. Suvìl entra dalle porte, il gruppetto rimane fuori, uno non riesce ad alzarsi. Dentro una profusione di giacche che costano stipendi e mutui, occhiali pagati a rate, profumi che costano settimane di lavoro. Lo stuolo di figlioli ben vestiti si distribuisce lungo tutti i vagoni. È venerdì, domani lavorano, ma ci possono andare impastati di alcol, va bene comunque, tanto poi si fanno due strisce la mattina e vedi come schizzano a fare i pizzaioli e i camerieri con solerzia e sorriso! Suvìl si siede, gli tocca origliare, ma senza prestare troppa attenzione, il suo culo è sempre il problema principale: non cagare è uno strazio, forse tanto quanto ascoltare certe cose.
“Ma secondo te io sono abbastanza bella per lui?”
“Ma lo capisci che non è quello il punto?”
“Sì, lo capisco. Ma io voglio solo sapere da te se secondo te, insieme, sfiguriamo. Cioè, se insieme la gente dice: ma guarda quello se non si è messo con un cesso simile.”
“No, non lo dicono, ma poi che discorso è? Ma lo capisci che discorsi a scema stai facendo? Sei carina, te l’ho detto.”
“Ma carina nel senso carina ma un po’ così, o carina nel senso… Perché…”
“Sei una bella ragazza.”
“Ma quindi dici che me lo merito?”
“Ma la finisci?”
“Ti prego, ho bisogno di sentirtelo dire. Tu sei lesbica, tu ci capisci di bellezza femminile.”
“Ti ho detto che sei una bella ragazza. Devi staccarti da questa roba e anche un po’ da lui. Non devi pensare ad altro. Questo è quello che ti sto dicendo da quaranta minuti, non che tu non sia bella.”
“Lo dici perché pensi in fondo-
“No, lo dico perché non ha senso che una ragazza carina si faccia tutte queste paranoie”
“Intanto tu una volta mi hai detto che non ero il tuo tipo.”
“Sì, perché appena finito il turno avevi preso a parlarmi di nuovo del tipo con cui uscivi. Ascoltami, tu hai una scimmietta dentro il tuo cervello, che sono i tuoi traumi, che pedala su una bici che è il disturbo ossessivo compulsivo che hai, che accende una lucina che sono le tue paranoie. Finché non impari ad avere a che fare con quella cazzo di scimmietta, continuerai a vivere una vita di merda, con chiunque. Lasciatelo dire.”
“A me interessa solo che lui mi ami.”
Scaduto il tempo, finalmente viaggia da solo. Altre dieci fermate. Quasi, quasi vorrebbe addormentarsi, ma non deve perché gli stronzi scappano soprattutto nel sonno e cagarsi addosso non è mai stata la sua scelta, in quei tanti momenti di dubbio sulle sue capacità di trattenere il sacro prodotto del suo intestino. Le fermate passano quando inizia a chiedersi perché sia tanto schizzinoso, perché abbia proprio bisogno del suo bagno. Quella fichetta di ragazzino dall’orecchino vistoso e dalle chiavi viola, che lui dice di non cambiare per pigrizia, ma intanto il viola glielo vede sempre addosso, e nei calzini, e nelle magliette e sulle labbra quando si mette il rossetto (a volte), quella fichetta lì, di problemi a cagare a destra e a manca mai se ne fa. Una volta, occupato il bagno dal capo in comando, quello ha cagato chissà dove! Si spera non in quella topaia del bar lì di fronte, lì c’è un cesso a terra con il buco lercio che emana un tanfo che stordirebbe i tubi di scappamento delle auto. Le fermate passano, le pubblicità cambiano, si trasformano. La metropolitana è vuota, nessuno avrebbe davvero bisogno di quelle fermate se non lui. Lui che deve passare dal centro. Li sente i grattacieli sopra la testa, arrivare, giungere. Ci passa sotto e lo sa, di fermata in fermata, lo sa che arriva sotto la terra che regge quelle ingombranti fondamenta enormi. Lo vede dalle pubblicità. Quando le pubblicità iniziano a sponsorizzare i vestiti dell’usato, i grandi mercatini dell’antiquariato, i cibi da poveri ma cucinati in ristoranti che stanno agli ultimi piani dei grattacieli, ecco… Lì, lui sa bene che è arrivato il momento di affrontare la ricchezza, quella vera, quella sana, quella di cui avrebbe fatto volentieri parte lui quando era giovane, quando i poveri erano poveri per davvero e i ricchi avevano la dignità di dirsi ricchi, già anche per come si vestivano.
La metro si ferma dove è tutto buio. Nessuna luce accesa. Suvìl lo sa che ora si dovra tappare il naso, per respirare il fumo del falò. A chi sia venuta in mente questa moda cretina di accendere falò nella metropolitana non si sa, non si sa tantomeno come questa cosa avvenga con la connivenza e il beneplacito delle istituzioni, nessuno interviene, nessuno sa come nel fine settimana questa contrada di figli di papà spenga addirittura le luci. I vestiti logori, grigi, sdruciti si moltiplicano a dismisura. Probabilmente vent’anni prima uno di quei pantaloni lo ha venduto lui per pochi spiccioli a un mercatino dell’usato e ora che il mondo ha deciso che l’usato va di moda, uno di questi scemi se li sarà comprati per un fottio di palanche. Si sposta nel buio, i fuochi dei falò lo solleticano, la gente balla, le casse inondano il buio e il fumo di musica elettronica mentre bicchieri di vetro da taverna si riempiono di vino. Qualcuno è davvero all’avanguardia, è venuto nudo, è l’ultima moda e gli altri sono anche poco convinti di volerla seguire, ma apprezzano il tentativo bevendoci su vino scadente pagato l’ira di dio. Il vero piacere è spendere, non bere! Suvìl intanto non ha tempo neanche per giudicare, le chiappe pulsano mentre sale le scale, neanche si chiede, stavolta, come ogni volta, come sia possibile che neanche scatti l’allarme anti-incendio e come, soprattutto, non sia scappato ancora il morto.
Fra i corridoi per la linea arancione le giacche sdrucite continuano a esondare e le pubblicità a farsi divertenti e colorate. L’unica cosa davvero bianca lì sono i denti dei sorrisi dei fotomodelli in pubblicità, prima che il pannello cambi. L’unica cosa che rimane è quella sensazione che non vuole passare. Suvìl sa bene che tutto il blocco dell’intestino è un sistema complesso di alleanze politiche che prima o poi si inalberano. A un certo punto c’è una parte che dopo un tot di ore si infiamma e la continenza si fa dolore. Ormai non lo teme più, sono anni che sopporta situazioni simili, lui e quel suo bagno di casa sono due elementi che nessuno può separare. Neanche lo sfarzo della metro arancione. Dopo otto minuti di attesa in mezzo ai falò e al buio, compaiono i fari del tubo di latta nel tubo cavo del binario, in quegli otto minuti Suvìl non ha fatto altro se non una cosa: cercare di rubare un secchio di latta a qualcuno.
Suvìl entra, si siede e prima che la metro riparta si mette il secchio in testa. La cosa difficile è cercare di rimanere concentrati sul culo con le bastonate che arrivano sul secchio. Quella moda la capisce già di più, era un gioco che facevano i suoi nonni, riesumato da un atto di nonnismo avvenuto due anni prima in una delle facoltà più importanti del primo quartiere. Lì sì che ci sono i palazzi importanti, sopra quella testa calva che ha, coperta dalla latta, dal tettuccio della metropolitana e dalla terra sottostante l’asfalto delle strade. Suvìl lo sa che la bastonata gli arriverà molto presto, sta a lui evitare che se la prenda troppo forte da perdere la concentrazione sul suo culo. Forse gli fa già male la pancia? Forse sì, forse no? E chi lo sa! Fuori dal secchio sente i colpi forti di quelli coi bastoni, ogni trenta secondi tirano la bastonata. La metro arancione è un cerchio, gira su sé stessa, non si svuota mai. Ma a Viale Zurbidia e Cantari deve scendere. La sente, gli rimbombano le parole nel metallo del secchio. Il secchio se lo tiene, stavolta. Tutta questa grande parata di stronzi gli ha ricordato che un secchio di latta da tirare in testa a qualcuno è sempre comodo. La metro è vuota. È l’ultima linea.
Affronta finalmente gli ultimi corridoi per la metro gialla, è stanco, spossato, distrutto, vuole solo cagare, mangiare e dormire, ma ora arriva il peggio prima di potersi davvero rilassare.
La metro gialla si sgancia dai quartieri più abbienti per finire nella periferia nera dove sta lui. Lì, la gente, spesso, stacca da lavoro a orari strani. C’è un motivo se ha deciso di trovarsi un lavoro dall’altra parte della città e se l’è tenuto: dove sta lui, le aziende, non hanno alcuna idea di cosa sia la decenza umana. Il sud della città è sempre stato in mano a un gruppo di bifolchi che delle norme del lavoro se ne era sempre sbattuto. A lui piacere la cosa non piaceva, ma in fondo ci si era abituato. La casa mai l’avrebbe cambiata, se l’era sudata, l’aveva fatta sua, ci viveva da solo, andava bene così. Lì c’era il suo bagno! Certo, erano zone pericolose, di sparatorie qua e là ne capitavano, di scaramucce fra bande se ne sentiva parlare spesso, ma tanto lui a casa ci tornava solo la sera per mangiare, cagare e dormire. E se qualcuno provava a fare baccano sotto casa sua, ecco che oltre alla secchiata di piscio, sarebbe volato altro e magari anche una o due fucilate. Quindi, perché cruciarsi? Viva casa sua! In quelle strade alla fine, se ne vedevano sempre pochi di umani, sapevano gli umani che gli unici umani presenti sarebbero stati animali e quindi si evitavano tutti a vicenda e preventivamente. Le sparatorie erano sempre concentrate verso i bar, le discoteche, le poche catapecchie che facevano ballare tipi e tipe nudi su cubi e sbarre per compiacere il gran ritorno dei lavoratori dalle fabbriche che per questioni varie staccavano a orari improponibili: la verità era che da quelle parti, c’era sempre qualche padrone che adorava scombinare i ritmi circadiani ai lavoratori, era la tradizione per farli chetare, questi neanche se li sognavano i comizi contro di loro, se il sogno e il sonno glieli levavi a suon di turnazioni draconiane. Ne pagava sempre lui le conseguenze sulla metro gialla.
Suvìl sente il centro svanire piano. La povertà finta dei pochi ricchi del centro, fa spazio ai lavoratori vecchi che staccano a quell’ora. Ecco che i suoi occhi, mentre con il culo stringe le chiappe e con le mani il manico del secchio deformato dalle randellate dei goliardici amici del centro, incontrano la cocaina stesa su un coltello e sniffata lungo la lama dal naso di un quarant’enne, il pediluvio di una donna anziana, in ambito da sarta, che si mette il catino sotto i piedi nudi, enormi, seduta lì, ci rimarrà per chissà quante fermate su quelle seggioline, il turpiloquio infernale di due che non parlano in lingua straniera, non parlano e basta, farfugliano e lo sanno che farfugliano, lo sanno che farfugliano, non si sa di cosa si siano fatti, ma poco importa, qualcuno entra con in spalla una televisione in spalla, è quello famoso perché la televisione se la porta a lavoro, sta solo cinque o sei fermate. Suvìl lo saluta.
“E il secchio?”
“Non si sa mai.” L’altro gli sorride e si mette a guardare la televisione, spenta. È una televisione sottile quella, è una televisione fatta per essere contemplata. Non l’ha rubata, gliel’hanno regalata. A volte la guarda anche accesa.
Suvìl vede piano piano la linea gialla svuotarsi, anche quella. Piano, piano la stranezza scompare. Rimangono pochi, una donna che non fa nulla di strano e un’altra che lo fissa, mangiandosi le unghie. Quella lo fissa ogni sera, Suvìl scuote la testa a guardarla, cosa cazzo vuole questa?! Pochi altri rimangono, ma alla fine non rimangono neanche loro: lui se li lascia alle spalle scendendo.
Casa sua è a cinque minuti a piedi in mezzo a una zona industriale. Sa che la via è vuota e le sparatorie sono lontane e ultimamente, diciamolo, è anche una cosa più rara. Ormai è tutto presidiato. Con il secchio in mano Suvìl si avvicina al grande, enorme, casermone che ha di fronte: il suo bagno è lì, oltre una porta blindata che non sfonderebbe neanche una testuggine. Quella porta chiusa è una delle poche cose che lo rendono felice. Con il secchio in mano, fruga nelle tasche, mentre cammina e si ferma. Chiude gli occhi, una vampata viola gli investe quella cortina di buio che sono le sue palpebre chiuse. Sa bene che a urlare e suonare, i suoi condomini reagirebbero male, sono tutti così sclerati, così disumani, così inevitabilmente stronzi. Quella sì, quella dentro quel casermone di condominio che ha di fronte agli occhi, quella gente sì, che è gente che non si trattiene.
Time Lapse a cura di Anja Aurora Mazza