Imputarsi di omicidio pur di raggiungere fama e successo. Il #metoo viene capovolto nell’ultima paradossale commedia di Francois Ozon
Guardando Mon Crime – La colpevole sono io non si può non tenere presente che il suo regista è quel Francois Ozon già autore di Otto donne e un mistero (2002), riduzione e adattamento della commedia teatrale di Robert Thomas, e Potiche (2010).
E anche Mon Crime è tratto da una pièce teatrale di Georges Berr e Louis Verneuil e della derivazione teatrale conserva le frequenti ambientazioni in interni e il ritmo dei dialoghi sagaci quanto verbalmente sferzanti. Ozon è a suo agio nel dirigere una commedia che gioca sui rapporti e le gerarchie di ruolo, che esegue una coreografia attentissima sulle relazioni interpersonali spesso portate avanti con l’unico scopo di ricavarne qualche beneficio, che rimane in drastico equilibrio ribaltando le aspirazioni che avevano mosso, al suo nascere, il movimento anglosassone #metoo. Il regista imbocca la strada più arguta e confeziona un divertissment ironico e spregiudicato dove rimangono centrali il rapporto tra giustizia e spettacolo (si pensi al tribunale che si trasforma ben presto nella sede di una farsa teatrale), l’astuzia delle donne e la moltiplicazione dei punti di vista sulla stessa vicenda.
Madeleine (Nadia Tereszkiewicz) è una attricetta che vive in casa con l’amica avvocatessa Pouline (una bravissima Rebecca Marder). Le due, dopo che Madeleine ha subito una tentata violenza da un ricco produttore teatrale poi trovato assassinato, escogitano un piano per accollarsi la colpa dell’omicidio – anche se non è stata Madeleine ad ucciderlo – trincerandosi dietro la “legittima difesa per serbare l’onore” e suggerendo moventi femministi così da ottenere fama, soldi e successo. Ma dopo poco, nuovi elementi iniziano a far scricchiolare il piano.
E così la screwball comedy passa dai toni del giallo a quelli del coutroom movie durante il quale le ipotesi dell’accusa vengono girate in bianco e nero e in formato quadrato per citare e omaggiare i film degli anni Trenta (e le stesse protagoniste vanno al cinema a vedere il primo film di Billy Wilder) per poi catapultarsi negli ultimi minuti nella canzonatura sagace alla Lubitch o alla Feydeau.
Fondamentale il cast corale con molte donne – come tanto piace ad Ozon – e con personaggi comprimari maschili che spesso sono languidi amanti (Edouard Sulpice) o inetti colossali (il magistrato interpretato da uno straordinario Daniel Prevost), dove tutte le armi più infime del fascino femminile vengono impiegate al fine di raggiungere il proprio scopo. Madeleine sfrutta la situazione a suo vantaggio pur di sfondare come attrice e permettersi quei lussi che ha sempre desiderato e non guarda in faccia a nessuno se questo vorrebbe dire mentire, sedurre, recitare in tribunale, fare la parte della vittima o spacciarsi per eroina dei diritti femminili.
In realtà ogni personaggio di Mon Crime parla o tace, stringe o rompe accordi, a seconda del maggior o minor favore personale che può trarre dalla situazione concomitante, sia una promozione come per il magistrato di Prevost o il ritorno sulle scene dell’attrice decaduta interpretata da Isabelle Huppert (splendidamente matrona come sempre). Solo che le donne lo fanno meglio.
E quando nel finale Madeleine e Odette recitano insieme sul palcoscenico riproponendo quanto accaduto nella realtà, si suggerisce abbastanza limpidamente che ciò a cui abbiamo assistito non è stato solo che una lunga pièce dove finzione e realtà, teatro e vita si sono mescolati ripetutamente.
È così? Ozon racconta una favola di donne unite dalle stesse intenzioni che seppur nobili sboccano in pratiche disdicevoli oppure descrive lo spaccato di un’umanità – che non poteva che essere messa alla berlina in una commedia – che, senza distinzioni di sesso, è pronta a tutto pur di vivere wharolianamente i suoi quindici minuti di celebrità?
Difficile dirlo quando ci si trova davanti all’opera di uno dei registi più imprevedibili del cinema francese contemporaneo che passa da un film come Grazie a Dio (2019), storia di un prete pedofilo, a Estate ’85 (2020), violentissima e passionale storia d’amore omoerotica che forse deve qualcosa al Gus Van Sant di Belli e Dannati (1991) o come Swimming Pool (2003), film caleidoscopico condotto sull’artificiosità dei sentimenti innescati dall’arrivo di una ninfetta che probabilmente rende grazie alla procacissima Lolita (1962) kubrickiana.
E dunque come catalogare questo ennesimo tassello del mosaico variegato che Ozon descrive, tessera per tessera, mano a mano che procede nella sua filmografia se non come una diversa declinazione di quelle realtà sinottiche che tanto affascinano il suo cinema? Ozon è troppo perspicace per limitarsi a fare il moralista tantomeno è suo intento raccontare una parabola parossistica ispirata dal #metoo.
In Mon Crime Ozon mette in scena una società dove gli uomini sono tristemente al loro posto mentre le donne preferiscono sognare, innovare, desiderare, inventare, tradire, immaginare. Un mondo che viene affrontato come se si dovesse entrare su un palcoscenico, dove la battuta è pronta per esser declamata e al pubblico prudono le mani poco prima dell’ultimo scrosciante applauso, dove le donne ottengono quello che vogliono grazie all’arma sottile della femminilità rendendosi registe e demiurghe dello spettacolo della propria vita senza che nessuno di loro sia costretta ad interpretare parti secondarie.
E pare urgente inoltre affermare che un film così non sarebbe mai possibile in America. Ed è vero forse, come sostengono i critici di FilmTv, che il cinema francese era e rimane il cinema migliore – vista anche la scrittura e la regia di quel notevole action movie che è November – I cinque giorni dopo il Bataclan di Cedric Jemenez -. Perché è un cinema che rimane scandalosamente assertivo e spensieratamente immaginifico, senza castrarsi dinnanzi alle mode o alle ossessioni del nullismo odierno.