E allora faceva un figlio eh? E brava! E allora era la gatta di qualcuno eh? Ma com’era che era andata? Lei che la faccia era come se gli fosse stata fatta spaghettata da quella nascita rocambolesca, lei che aveva quegli occhi cascati di là e la bocca storta di qua come mozzarella su una pizza sfatta, lei!, con quel naso che pareva un cornetto tutto rinvoltolato, finalmente figliava? Uuuhhh se gli era piaciuto l’uccello la prima volta che l’aveva preso! L’aveva guardato, il suo gatto – così aveva subito preso a chiamarlo Zalzermo, dopo il bacio, sin da subito, innamorata sfatta – e aveva iniziato a ridere di gusto! Lei aveva riso di gusto perché lei con una faccia del genere aveva visto qualcuno guardarla interessata (era proprio alla pizzeria dove lavorava che lui le aveva sorriso la prima volta)! Ci aveva anche parlato, pensa un po’ (quella stessa sera, le parole le uscivano fuori anchilosate, anche la voce era storpia)! Si erano scambiati addirittura il numero di telefono, tu pensa (lei lo aveva segnato con quelle dita raffazzonate su una mano da bradipo)! Ci crederesti se ti dicessi che sono anche usciti (sulla scogliera avevano parlato di quella sua vita da cameriera)?! No?! E che poi si sono baciati (l’uscita dopo, hanno anche aspettato, che carini!)! No! Incredibile, una così… Una così aveva toccato il ferro, quello duro e piacevole, in mezzo alle gambe di un uomo. C’è speranza per tutte ti dico! Certo, lui l’hai visto? Sì, toccato il ferro l’ha toccato e poco è importato se lui per guardarla con tutti e due gli occhi ci aveva messo due buoni minuti per allinearli.
Zalzerno lavorava come metalmeccanico nelle acciaierie, là, al porto, praticamente dall’altra parte del golfo. Ma aveva la casa a pochi quartieri dalla sua, proprio a due passi dal vulcano. Anche lui c’era proprio sotto, sotto quella specie d’affare di terra che fissava incazzato la città. Una città con un grande handicap! Un bel vulcano! Guarda un po’! Dicono dorma e che mai si sveglierà, ma tu, che stai qui ad ascoltarmi, ci credi? Solo cento anni prima di quella loro prima uscita, cento anni prima e tre mesi, a essere puntigliosi, quell’affare enorme di roccia aveva perso dal suo nasino di terra un bel po’ di quel suo sangue. Starnuti pirotecnici non ne aveva avuti, nessun gran pennacchio, una mezza fumarella sfumata si levò e nulla di più. Bruciarono due quartieri, non morì nessuno, la lava moccio si era levata dalla narice della terra con grande tranquillità, ma qui, qui morirono interi paesi anni orsono, morirono terre intere… Altro che handicap… Sì, Sorfenia si chiedeva quanto potesse essere idiota l’uomo a voler abitare le pendici di un vulcano, lei che era donna però non riusciva più di tanto a cavarcisi di lì: e i pomodori quelli buoni e il mare quello bello e il sole splendente e la città di Vazzes che straripava di cose bellissime e case grige senza un vero criterio. Ma che spettacolo però? Che spettacolo stare dove ti si scalda il cuore, anche se l’inconveniente è grande.
C’è da dire che quella terra mica era stata così clemente con lei, a essere onesta! Mica gliel’aveva scaldato il cuore! Macché! Gli unici due che le avevano voluto bene erano gli zii materni. Sì, come gran parte della sua faccia, anche lei in qualche modo era scivolata di lato. I genitori avevano tre figli, questa gli era uscita male… Gli zii erano soli… Che fare? E non gliela dai in gentile concessione agli zii progressisti e di sinistra la bambina nata male? Loro tutti intellettuali, professori delle medie? Poi, intellettuali… Insegnano alle medie! Lui andava in giro coi sandali di bambù all’università per fare il fico con la chitarra, ma te lo ricordi? Eh, sì, era stato abbastanza stronzetto il destino con lei! Manco i genitori l’avevano voluta ed era finita a stare in quel condominio con i suoi che le dicevano che i suoi difetti manco si notavano. Quei due scemi che si leggevano libri per bambini dicendo che era grande letteratura e ai loro alunni, invece che i compiti – ma ti dico che facevano tutti e due così, eh! Ma convinti! – dicevano di andare a baciare le ragazze della loro età e scoprire il mondo, perché le nozioni sono sopravvalutate e la vita va vissuta, quei due scemi tutti intellettuali cercavano di convincerla che lei era perfetta così com’era. Quando lo stato mise a disposizione delle concessioni per interventi di chirurgia estetica lei aveva dodici anni e di questa roba non sapeva nulla, non sapeva neanche che un giorno avrebbe preferito lavorarlo con la pialla quel suo volto maledetto invece che lasciarlo così, in balia di quella vita da vulcano dormiente, tutto esploso ma senza che sia esploso, tutto distrutto quando ancora è tutto integro. Loro invece erano professori delle medie e convinti della bontà della cosa, manco gliene parlarono. Ma tu ci credi che questi pensano di essere stati anche dei buoni genitori? E pensare che i suoi veri erano pure peggio, i suoi cugini, quelli nati dopo di lei, scoprirono di lei a quindici anni. Stavano nella stessa città, ma ci si erano messi di impegno a farla sparire dalla loro vita. Già, là sotto al vulcano l’avevano spedita, loro che erano vicini al porto e tanto meglio non stavano ma almeno la faccia ce l’avevano a posto.
Negare, i suoi zii, o genitori adottivi erano dei fuori classe a negare. Loro sì, stavano sotto al vulcano, ma essendo la natura una cosa dolce e carina, mai sarebbe esploso. Esplodere? Eh, boh, una cosa che facevano una volta i vulcani! La bimba venne rimpallata come una pallina da ping-pong per tutti gli istituti più malfamati della città. Il bullismo? Una manifestazione dell’ignoranza umana, tu ignorali! Eh, facile! Tu scherzaci! Eh, facile! Ma lei ci provava anche! Tu prova a dare a vedere che la cosa non ti tocca! Eh, lei ci provava, ma glielo si leggeva negli occhi che la cosa la feriva, poverina… Oddio, quando a quindici anni ti chiamano mostro a ripetizione, non è semplice sbrigarsela la vita scolastica… Ma che farci? Ormai la misura per la chirurgia estetica gratis era passata, l’avevano archiviata, cassata, chiusa, non c’erano più le agevolazioni e rifarsi il viso, uuuhhh, era non una spesa! Più la spesa, che l’impresa! Lei non ce l’aveva così tanto con i suoi, forse aveva anche un leggero ritardo, non so… Sta di fatto che mentre il mondo degli ormoni fioriva e lei guardava baci e sentiva parlare ti palpate di culo e a sedici anni, nei bagni di quel suo istituto superiore, dicevano, si erano consumate cose che apriti cielo, chiudi terra, fra il bulletto (e lei aveva sempre una cotta per uno di quelli); il bulletto di turno e la stronzetta di turno, ecco che lei era lì a cercare di capire cosa non andasse in lei, lei che sì, si era sempre vista diversa, ma aveva sempre saputo da mamma e papà che era perfetta così. Suo padre morì quando lei aveva diciotto anni, circa! Non so neanche se hanno fatto il funerale… Eppure lei avvertì la cosa marginalmente. Quella figliola aveva una sola grande problematica, tutta sua, mai espressa, nessuno sospettò neanche vagamente che tutto si racchiudesse all’interno di quella noce di burro che era il punto focale di ogni suo problema: trovare un gatto.
La moda di chiamare i fidanzatini “gatti” era nata almeno una ventina di anni prima. I suoi si chiamavano gatto e gatta, l’un l’altro, e quando dovevano parlare a lei dell’altro si riferivano all’altro con mamma gatta e papà gatto, una cosa di uno stucchevole che aveva del ridicolo. Non a caso la moda morì ben presto, e anche nella sua massima espansione aveva infettato solo i più disagiati fricchettoni sinistrati che avrebbero mai potuto esistere in città, gente da sandali di bambù, occhiali con le lenti fucsia e le canzoni dei bambini sempre in bocca che dicevano che il vulcano era amico e mai si sarebbe svegliato con più forza e convinzione degli altri, perché il vulcano era la natura… Era tornata di moda quella canzone cretina che era stata l’inizio tutto il problema… C’era stata di fatti, all’inizio, all’origine della moda una canzone per bambini il cui titolo, se non mi ricordo male, era “la gatta sul tetto che scotta” o qualcosa di simile. Vent’anni dopo la gioventù carbonizzata di quei due spostati dei suoi genitori, Sorfenia, all’età di quindici anni visse una nuova ondata di quella canzoncina. La gente la cantava a sfregio e a sfregio tornarono a chiamarsi i ragazzetti gatto e gatta, così, per pigliare per i fondelli quella moda da fricchettoni ormai andati in là con gli anni… Ma a forza di pigliarli per i fondelli, in quella moda ci erano caduti anche loro. La sua questione principale, all’età di diciotto anni, era trovare un maledetto gatto che la chiamasse gatta.
Voleva sentire addosso le dita di un uomo, sentirlo dentro, farselo e farsi fare le cose peggiori. Ma si aggirava per la strada con quel suo faccino che a guardarlo da una parte diventava faccione. Come faceva? Poverella! Storpia come pochi, pure la sua faccia le scappava da una parte tutta quanta quando quella faccina appariva: quella, non appena l’immagine riflessa avveniva, scappava all’indietro… Che si ritrovasse nella via principale, l’enorme vialone che spaccava Vezzes di fronte alle vetrine dei negozi, che facesse le grandi scale dei giardini di Rubilar, che fosse al porto a guardare i banchi ormai vuoti del pesce dove la sua puzza si faceva moribonda, non c’era un singolo posto che le ricordasse che lei, povera figliola, agli esseri umani faceva palesemente schifo. La scuola la finì a diciannove anni, due anni in ritardo, dopo un massacro durato ben sette. Lei che aveva visto i primi della classe amarsi, gli ultimi della classe scoparsi, quelli nel mezzo baciarsi e tutti, nessuno escluso, evitarla con puntualità. Com’è che lei era perfetta così com’era? C’era un gruppetto di donne vecchie che stava sotto casa che commentava ogni cosa che lei facesse, per anni diventarono la sua certezza: quando usciva, quando rientrava, erano sempre lì, puntigliosamente a rimarcare che la sua vita era una vita buttata, lei gatta di qualcuno non sarebbe mai stata. La cosa divertente è che loro, quelle tre, di cui a stento ora ricorda il nome, non le sarebbero mai rimaste in testa se non sottoforma di sagome, di voci. Erano sotto casa, la arpionavano quando usciva dalla porta del condominio e quando vi rientrava, con i loro commenti al vetriolo, e sarebbero rimaste lì a commentarne la vita da quando era nata fino a quel giorno, questo giorno, questo qui, questo 29 agosto 1999, ma non sarebbero mai diventate nulla di più se non un coro di voci. Una delle cose che le avevano attaccato era di chiamare come i vecchi chiamavano il vulcano, per loro era il tetto.
Gli anni dopo il liceo iniziò a lavorare come cuoca, aiuto-cuoca e infine cameriera, mentre la madre diventava grassa in maniera indicibile. Poverella parte seconda! Quella donna aveva perso il marito, già aveva avuto la iella di essere una fricchettona, ora si ritrovò anche in casa dalla mattina alla sera accudita da una figlia che, nessuno sa come, amava, ma che manco era sua. C’è da dire che le due si amavano davvero, si volevano sinceramente bene. Sorfenia certo che l’amava, sua madre era l’unica donna che davvero credesse in lei, che le dicesse che valeva qualcosa, che la rincuorasse da quell’enorme, ingombrante cosa che era la sua vita. Lei intanto rimbalzava da una parte all’altra, quando non accudiva quel pachiderma di sua madre, per quel mondo spietato di frasi cattive e occhiate bollenti che la guardavano col fuoco negli occhi ogni volta. Per anni, scartata come uno schifo immondo, lei che più di tutti desiderava farne parte. Lei ricambiava col sorriso (sicuro era ritardata, mano sul fuoco)… Però, in fondo, che doveva fare? Eh, ma ci passò degli anni così, mentre in lei friggeva dentro quella noce di burro che era la gran questione della sua vita. Non le fregava niente del fatto che in cucina non la volessero perché non sapeva fare nulla e che l’avessero messa fra i tavoli a portare le pietanze, scattando come più le riusciva scattare, pur di tenersela, perché una come lei erano fior fiori di sgravi fiscali su tutta la pizzeria e anche sul ristorante dall’altra parte della strada, se avevi il commercialista furbo. Non le fregava di essere scartata dalle masse di persone che le piovevano addosso, lei voleva soltanto farsi fare le cose sconce, le cose quelle sporche, essere toccata, assaggiata, scopata, come dicevano i vecchi fra quelli più volgari. Sorfenia non le era toccato in dono dal tetto, dal vulcano, di poter essere toccata da nessuno e allora, l’unica cosa che poteva fare era soffrire questa mancanza in silenzio. Lo fece con il sorriso per anni, anche dopo i diciotto, anche dopo la scuola, fagocitata da quel ristorante che se la teneva stretta per quegli ovvi motivi che tutti sapevano e di cui nessuno parlava, gran uomo il suo datore di lavoro eh! La voglia si impastò, farina amara, con la paura e il rancore, lievitò sotto quel sorriso diventando dolore, rimase lì ad accumularsi, come il grasso che anno dopo anno mise su sua madre, finché non piombò al ristorante un tizio messo male come lei e che aveva sempre vissuto a due passi da lei, ma che perché la vita è sia triste che ironica, manco aveva sospettato esistesse. I due soffrivano la stessa ingordigia, la stessa fame, lo stesso dolore, ma non lo sapevano e nel dubbio si piombarono l’un sull’altro con una disperazione che ebbe del drammatico.
Quando si scoparono era agosto e le protezioni neanche sapevano cos’erano. Nessuno dei quattro esseri umani che avevano cresciuto quei due esseri avevano mai sospettato, in cuor loro, che uno scenario del genere potesse verificarsi davvero. Tutti e quattro avevano amato quei due esseri a modo loro, tutti e quattro avevano cercato di proteggere quei due esseri dicendo loro che erano perfetti così, ma nessuno di quei quattro aveva realmente pensato che quell’imperfezione, che loro, in cuor loro, vedevano e ammettevano a loro stessi, avrebbe potuto incontrare un’altra imperfezione che avrebbe saputo passare sopra il disastro che erano, facendo sì, che l’uno trovasse un altro. Ecco che Sorfernia era passata in una sera dall’essere gatta all’essere mamma gatta. Era incinta. E avrebbe scoperto di essere incinta dal ginecologo la mattina del 29 agosto 1999, un mese dopo. Inforcata la bicicletta, felice come non mai, era andata a lavoro.
Fu proprio lì, in mezzo ai tavoli che percepì con quel suo corpo che sentiva finalmente adulto il fremito del pavimento. Le pareti del ristorante diventarono liquide squagliandosi in una mossa di danza che le percosse fino al soffitto. Mentre la scossa passò lungo le pareti, i piatti, i bicchieri, gli occhi delle persone si scostarono da dove stavano e traballarono. Una scossa di terremoto in quella zona, così forte, non era buon segno. Certo, c’erano state delle scossarelle qua e là, ma chi se le era filate? Era circa un mese che il terreno fremeva, ma poco! Quasi impercettibilmente! Il primo pensiero di Sorfenia Mangaralles fu quello che, correndole dalle piante dei piedi, stringendosi nel collo ed esplodendole in testa le fece pensare alla madre. Sì, una scossa del genere doveva essere per forza preludio di un gigantesco, grande pennacchio! Se la terra trema così, è ovvio che la caldera c’entra in qualche modo e la caldera esce da là, là dove sta lei, dove quel monte alle cui pendici c’è casa di sua madre, quella madre ormai enorme, che per una complicanza dopo l’altra non può muoversi.
Sorfenia non ci pensa due volte a chiedere al suo datore di lavoro di lasciare il ristorante, sono in diversi a farlo, alcuni clienti stanno anche pensando di andarsene senza pagare, è un brutto segno! Ma mentre quello cerca di minimizzare, il suono bussa alle porte delle orecchie di tutti sussurrando una cosa: il boato si è fatto tragedia e ora vi tocca morire. Il suono prima sussurra, ma poi cresce, diventa il boato, il rombo, lo scoppio, il fragore, il come definirlo Sorfenia? Come definire quel che stai vivendo ora, mentre coi tuoi occhi strabici osservi l’enorme pennecchio levarsi dalla bocca del vulcano? È un braccio di cenere e colata lavica che agguanta il cielo a una velocità inquantificabile eppure è una velocità che ha una certa lentezza e ha una certa lentezza perché nessuno ha la forza di ammettere con i suoi occhi a quale velocità si sia materializzata la morte nel cielo, si preferisce pensare che sia lenta, il cervello la rallenta. Una velocità lenta. Ma è lei ora quella a cui tocca essere veloce. Che lo ha fatto a fare un figlio se non ha una madre a cui farlo vedere quando nasce? Che si è fatta ingravidare da una bestia informe come lei se lei non può rendere la gioia di un nipote a quella donna sola che lascia sola nella stanza ogni giorno? L’unica che le abbia voluto bene e che le sia rimasta accanto, senza di lei, che senso ha la vita che, ha scoperto quel giorno, porta in pancia?
Sorfenia inforca la bicicletta, ormai non c’è datore di lavoro che tenga. Sono otto chilometri di viale, sono otto chilometri di sudata, ma arriverà alle pendici di quel vulcano e porterà sua madre in salvo. Il viale si è improvvisamente trasformato in un’enorme parata di volti umani. Bene o male quei volti le ricordano volti che ha visto nella sua vita, certo, tutti volti con tutte le parti della faccia al loro posto, ma adesso inequivocabilmente rapiti da un unico evento: il pennacchio si impenna in cielo cattivo come una malattia anche nei loro occhi, mentre le pupille lo guardano.
Nel primo chilometro le sue gambe scantano i muscoli, abituata a pedalare su quella scomoda bicicletta da signora, piglia su per il viale che si ingolfa di auto e suoni di clacson. I negozi e i palazzi antichi del centro, dove il suo ristorantino acchiappa turisti si è morbosamente installato, riflettono i toni rossi dell’incendio inumano che spicca dalla bocca del vulcano, quell’enorme verruca di terra ha preso a esplodere, finalmente! Il tetto si scoperchia! Mentre le gambe fanno su e giù sui pedali e i muscoli si scaldano e si affaticano e sbraitano e si ingozzano di zuccheri, Sorfenia vede la parata di facce scorrerle addosso. I pianti si fanno frignare screanzato, occhi scapestrati si attaccano al cielo mentre le mani pigliano a pregare, le bocche urlano, hanno una vita per cui strillare loro, Sorfenia no, deve sbiciclettare verso sua madre.
Il secondo chilometro in salita è quello delle grandi scuole, istituzionale riversa per le strade studenti e studentesse. Alcuni, già con depressione latente, guardano in silenzio l’innalzarsi del fastidio di cenere e cielo rosso. Fulmini prendono a cadere mentre tanti urlano proteggendosi, innocentemente, con gli zaini scolastici. Inizia a piovere pietra pomice? Sorfenia non ci bada, lei ha una nonna da far diventare nonna, quella donna che neanche è stata madre, ma che le ha fatto una madre. Sorfenia ci ragiona, per lei alla fine la sua vita è stata un po’ come quell’esplosione. Le pare, al terzo chilometro che tutto ciò che ha vissuto lo ha vissuto esclusivamente in funzione di quel momento: come è che è stato tutto così dormiente e come è che le appare tutto così dirompente ora che vive il disastro? Che sapore hanno le cose quando la morte si fa concreta, vicina, quasi amica ti guarda da lontano e tu le vai in contro, le vai in contro Sorfenia, perché? Cos’hai? Che hai mai avuto nella tua vita di così importante se non un affetto a profusione di due bestie solitarie come i tuoi genitori? E quello non sarebbe forse la base? Perché a te solo la forma base di quell’affetto umano che tutti dovrebbero avere e il resto una materia informe di disprezzo? Com’è che a te la vita è stata così salata, salata sua una ferita disorganizzata come il tuo volto? Screanzata come il tuo sguardo? Ora chi ti frena dal correre contro quel vulcano che esplode? Certo, devi salvare tua madre ma… Se ci fosse altro?
Il chilometro di istituti e università del centro te lo lasci alle spalle, via quel disumano attrezzarsi di finestre ornate e portoni giganteschi con sopra sventolanti le bandiere nazionali e sovrannazionali in onore dei futuri grandi dottori e ingegneri che comanderanno questo mondo in cui continuerai a essere schifata. Tu e la tua faccia non la percepite la caratura istituzionale di questi grandi istituti, non ti fermi neanche un istante a fare l’inchino ai grandi professori universitari che ora, colti anche loro dall’abominio del vulcano, si ritrovano per strada a strabuzzare gli occhi e morire. No, tu non hai tempo, hai una madre grassa e sola che sta proprio là, sotto il vulcano. Chissà quanto vale tua madre che insegnava alle medie, eh? Eppure, superi quel chilometro di istituti senza sussiego e senza fermarti, per entrare in un altro chilometro del centro, l’ultimo: le piazze belle si fanno più rare, i gran palazzi spariscono, le gran belle statue del passato si fanno rare, ma la tua pedalata no, quella macina, trita, trita e macina volti.
Quanti volti vedi, non cambiano mai. Una minestra di facce diventa questa pedalata che con i pedali rimesta momenti e situazioni. Quanti anni sono che percorri questo viale all’ingiù? E ora che il vulcano esplode come sei rapita da questo ritorno al tuo tetto. Già, una gatta sei tu ora e quello è il tuo tetto, il gran vulcano che sbotta. Come fare a calmarlo? Puoi calmarlo tu Sorfenia il vulcano sussurrandogli dolci parole? Puoi dirgli, “no, su, chetati, non c’è bisogno di fare così” al vulcano? Le colate pirotecniche che sai bene ti inceneriranno si faranno meno calde, più tiepide con un tuo sguardo? Non puoi trattare il tetto come un bambino, non importa se sei gatta, se sei mamma, se sei mamma gatta, se il tetto scoppia, scoppia! Il centro si fa periferia, si impenna come il pennacchio su per il monte, le gambe si fanno piene di crampi, sono fulmini, non crampi, i tuoi occhi si ingrigiscono, si fanno di fuoco, mentre pedali sotto le enormi pietre leggere di pomice che ti cascano addosso per pura inerzia mentre la terra ancora trema, le scosse si fanno flebili ma costanti e le strade salgono ancora di più e i volti sono sempre gli stessi, sempre e comunque di gente che sa di essere lì a morire, perché la vita ha deciso così.
Hai perso il conto e l’idea dei chilometri a cui sei arrivata, sai che ti manca poco, sai che sei tu e la tua vita di madre e di figlia a contatto con l’enorme caldera. Ma non hai il tempo di capire dove sei, davvero. Sai che manca poco, sì, ma non sai quanto, i luoghi in cui ti riconosci, non ti riconoscono. Tu non li conosci, loro non ti conoscono. Quelle vie, quelle case, quei quartieri, che sono tuoi, non sono più tuoi: tutto è un miscuglio nero di notte mentre dovrebbe essere mezzogiorno, sì! Hai fatto otto chilometri, stai arrivando, hai corso in salita, sei sfinita, il cielo è nero, il mondo è perso e tu hai capito che in tutto quello ti ci ritrovi e sei lì per tua madre ma!
E se improvvisamente capissi? Se improvvisamente capissi che il richiamo pirotecnico ti ha stuzzicato qualcosa nel bassoventre? Se invece capissi che invece di tua madre fossi venuta fin quassù per me? Il tuo tetto, che ora sbotto? Siamo così dissimili io e te Sorfenia? Puoi tu resistermi? Puoi tu aspettarti di poterti fermare? Lì, a casa, dove sta tua madre e soccorrerla? No, eccoti che con gli occhi spalancati dimentichi di chi sei e da dove vieni e dimentichi anche che sono io ciò che hai sempre desiderato. Cosa sono io se non il tuo vero te? Eccolo, tuo figlio, l’enorme pennacchio di lava si leva su per il mondo e tu con la tua bicicletta percorri, senza soccorrere nessuno, rapita da me, quelle strade oltre casa di tua madre, su per il vulcano e quando non ci sono più strade, allora corri, corri a mani nude, a piedi che si feriscono, perdendo le scarpe, su verso di me, che sbotto ed esplodo. Fra concepire ed eruttare che differenza c’è? Non hai forse fatto un figlio per dire al mondo che esisti? Te ne fregava davvero qualcosa di quel bambino che sai di aver concepito? Gliene fregava davvero qualcosa ai tuoi, i tuoi zii, di te, quando ti amavano? Cos’è l’amore se non un fenomeno eruttivo, pirotecnico, plastico? La voglia di inondare il mondo con sé stessi? E allora, vieni, Sorfenia, vieni, sento le tue mani storpie che si arrampicano su per la mia abominevole e grande parete, storpia di rocce, brutta come te, vieni! Vieni mentre diventi grande come l’intera montagna, possente come l’idiozia del tuo sottocutaneo deficit cognitivo. Non c’è speranza per l’umanità, ma ce n’è ancora di meno per te e allora, tanto vale, diventare un’enorme sagoma divina che si unisce con me in quest’enorme sgorbio nel cielo. Eccoti, madre per davvero, ti levi sulle nuvole, enorme pennacchio di fumo. Il tuo volto, storpio di cenere urla, vuole dire al mondo di avergli dato un figlio e per farglielo capire meglio, ingolfa le strade, i campi, il mare, il porto, con il suo caldo, materno, pirotecnico messaggio: sono parte di voi.
Time-lapse a cura di Anja Aurora Mazza
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